"Per una vita nuova": è stato questo il titolo della Giornata diocesana del Creato di sabato 4 settembre a Mansuè (TV), che si inserisce e apre il mese del creato.
Un pomeriggio e una serata all'insegna della condivisione, del contatto con la natura e della preghiera, con la veglia tenuta dal vescovo Corrado nelle strutture della cooperativa Terramica.

I partecipanti si sono prima incontrati per una passeggiata e una visita guidata al Bosco delle Viole, poi hanno assistito alla proposta teatrale/culturale e condiviso il momento della cena al sacco.

 

Il direttore di Caritas Vittorio Veneto don Roberto ha poi aperto la veglia all'Azienda Agricola Sociale Terramica spiegando il significato del luogo scelto.
Le strutture di Terramica sono state realizzate grazie al contributo dell’8x1000, ma soprattutto grazie al lascito (e al progetto) di Maria Bertacchini, scomparsa alcuni anni fa. E proprio sulla figura di questa donna don Roberto si è soffermato ravvisando in lei almeno – per usare un termine chiave del messaggio dei vescovi per la giornata del creato – tre “transizioni”: la prima è quella dal “mio” a “vostro”, vale a dire la transizione dei suoi beni alla chiesa locale; la seconda è dal “presente” al “futuro”, tramite un progetto, consegnato a quanti avranno il compito di portare a compimento le sue intuizioni; la terza transizione è quella rivolta a tutti i “giovani maschi in difficoltà”, in cui ha visto le fatiche e le sofferenze del proprio fratello Natale.

Tre transizioni che, ovviamente, sono un appello rivolto anche a ciascuno di noi.

La veglia è continuata con l’ascolto di un brano di Haydn sulla creazione, la recita del salmo 104, la meditazione silenziosa dell’urlo di Munch, espressione del “grido che sale dalla terra” sfruttata e depredata, l’ascolto di alcuni passaggi della Laudato si’ di papa Francesco.

Nella sua riflessione il Vescovo ha invitato a riflettere sul fatto che la distruzione della terra ora è un rischio concreto, ma non come castigo divino, quanto piuttosto come opera dell’uomo.
Ha così motivato il senso della sua lettera per il mese del creato – che è poi stata consegnata a tutti i presenti – invitando tutti alla conversione e alla necessità di cambiare stili di vita e il proprio cuore, perché concepisca il creato come un dono da custodire e da proteggere.

Dopo l’omelia, i presenti hanno compiuto un gesto: hanno seminato dei semi su dei vasi di terriccio, un gesto di speranza e cura per la terra e per il nostro futuro.

La lettera del Vescovo Pizziolo per il Mese del Creato:

"Cari fratelli e sorelle, da diverso tempo si celebra il 1º settembre la Giornata per la custodia e la cura del creato, sia a livello di Chiesa italiana, sia a livello mondiale. Proprio su questi temi è intervenuto più volte il Santo Padre, papa Francesco, per richiamare l’importanza dell’ascolto del “grido della terra” e del “grido dei poveri”, come a suo tempo aveva sottolineato nell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015).

Mi sembra doveroso ora, stimolato anche dall’impegno della nostra diocesi negli ambiti della cura del creato e della promozione di “nuovi stili di vita”, offrire alcune riflessioni che rilancino e approfondiscano alcune questioni che si profilano come significative. Le presenti righe potranno così costituire un ulteriore riferimento in questo “Tempo del creato”, che coincide ogni anno con il mese di settembre.

Verso la Settimana sociale di Taranto

Vorrei ricordare anzitutto il cammino nel quale siamo da tempo addentrati: quello verso la 49ª Settimana sociale dei cattolici italiani che si svolgerà a Taranto dal 21 al 24 ottobre prossimi, in cui sono posti al centro dell’attenzione i temi di “ambiente, lavoro, futuro”, nella loro intima interconnessione. In questo senso, come hanno ricordato i vescovi italiani nella Giornata del creato lo scorso 1º settembre, assume un particolare rilievo l’urgenza di procedere ad una reale “transizione ecologica”. Così infatti si esprimono i vescovi nel loro Messaggio, che anch’io sottoscrivo e condivido: “Nella transizione ecologica si deve abbandonare un modello di sviluppo consumistico che accresce le ingiustizie e le disuguaglianze, per adottarne uno incentrato sulla fraternità tra i popoli”. Appare perciò più che mai paradigmatico quel modello di “ecologia integrale” descritto da papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, come punto di riferimento per processi economici capaci di integrare non solo i valori materiali, ma anche la dignità delle persone, l’inclusione degli ultimi, l’uguaglianza tra i popoli, la responsabilità sociale di ogni impresa, nell’ottica di una economia circolare che sappia valorizzare anche le relazioni umane e le interconnessioni di tutto il creato.

Le tante forme di inquinamento

Tra le responsabilità sociali che oggi siamo chiamati a riscoprire, sicuramente non possiamo dimenticare quella delle aziende agricole. Sentiamo, infatti, forte nel nostro territorio il richiamo al rispetto dell’ambiente e della salute delle persone, spesso minacciati dall’abuso dei cosiddetti “pesticidi”. Come pure sento urgente richiamare l’attenzione sul tema della preservazione della biodiversità, in un’area in cui la monocoltura (che rischia di diventare “monocultura”, dove non c’è spazio per chi la pensi diversamente) rappresenta un limite di cui tenere conto, tanto per le possibili ricadute economiche, quanto per quelle ambientali. Desidero perciò ribadire l’impegno di questa Chiesa ad adoperarsi a sostegno della salute delle persone, della custodia del creato, del primato dell’etica sull’economia. Questa terra, che recentemente ha anche ottenuto un riconoscimento da parte dell’Unesco come “Patrimonio dell’umanità”, merita tutta la nostra dedizione, perché possa essere valorizzata nella sua bellezza e arricchita dal patrimonio di valori che da sempre hanno contraddistinto la nostra gente!

Vorrei invitare, però, a non fermarsi soltanto ad uno degli aspetti di una questione più complessa e articolata.

L’inquinamento che purtroppo segna il nostro territorio non è soltanto quello dei fitofarmaci di sintesi. Sarebbe miope uno sguardo che non prenda in considerazione l’ancora troppo maggioritario impiego di combustibili fossili; come sarebbe ingiusto chiedere soltanto agli agricoltori sforzi di rinnovamento senza che ciascuno di noi si senta personalmente interpellato a un cambiamento radicale negli stili di vita: ad esempio preferendo l’uso della bicicletta a quello dell’auto, favorendo l’uso di energie rinnovabili, esprimendo il proprio concreto impegno verso forme di economia circolare per un minore spreco di risorse, vivendo con maggiore sobrietà per una riduzione generale dei consumi.

D’altro canto, non è solo l’inquinamento ambientale a risultare problematico: occorre riconoscere invece nell’“inquinamento del cuore” la radice vera di ogni disagio sociale (cfr. Mc 7, 21-23). Mi preoccupano quindi, nella stessa misura, anche le crescenti forme di ingiustizia sociale, spesso sottaciute, dissimulate o talvolta perfino giustificate: dalle espressioni del caporalato presente anche nelle nostre terre, al lavoro “a nero” in cui spesso sono sfruttati gli immigrati che cercano qui da noi la possibilità di un futuro diverso, alle speculazioni o alle frodi che falsificano la genuinità dei prodotti soltanto in nome di un guadagno più elevato, ma senza tutele per la qualità dei prodotti e, soprattutto, per la salute degli operatori e dei consumatori.

Non possiamo arrenderci alla logica dell’ingiustizia per paura, per rassegnazione o per indifferenza! Essere cristiani ci chiede oggi di saper risvegliare la nostra coscienza per essere, a nostra volta e attraverso la nostra testimonianza, coscienza critica dentro la società in cui viviamo.

La necessità di favorire il dialogo, ampliando lo sguardo

Saper risvegliare le coscienze non significa però fare moderne “crociate” che rischiano di diventare ideologiche. La realtà è sempre complessa e non può essere ridotta ad alcuni aspetti a scapito di altri. Ritengo perciò che debba essere favorita, più complessivamente, una “cultura del dialogo”, in cui le diverse sensibilità si pongano schiettamente a confronto, con verità e carità, alla ricerca di un maggiore bene comune. Mi riferisco, in modo particolare, alle tensioni che talora emergono tra produttori agricoli e movimenti ambientalisti, di cui da diverso tempo si sta occupando anche l’Ufficio diocesano per la pastorale sociale tramite l’iniziativa – che sostengo e incoraggio – del “Tavolo di dialogo”. L’obiettivo di tale iniziativa deve restare quello di trovare una forma alta di mediazione, perché dal conflitto generato dalla diversità di vedute, possa emergere un impegno comune a favore del nostro territorio, tenendo insieme i valori dati dalla salute, dal rispetto dell’ambiente, come pure dall’economia, chiamata ad essere sempre inclusiva e orientata veramente al bene di tutti. Ogni cammino di crescita – dobbiamo esserne consapevoli – è avvio di un processo che, come tale, richiede pazienza, tempo, abnegazione, nell’accoglienza e integrazione di opinioni diverse.

Aggiungo però un’ulteriore osservazione: con la stessa onestà intellettuale con cui guardiamo ai necessari passi avanti da compiere nell’ottica della sostenibilità e della riduzione dei “pesticidi” dannosi, dobbiamo anche riconoscere tutti gli sforzi fatti in questi ultimi decenni in ambito agricolo per favorire la salubrità e la cura degli equilibri ambientali. Così, allo stesso tempo, occorre saper riconoscere il pericolo di estendere sotto forma di pregiudizio un’indifferenziata condanna verso tutti coloro che operano nell’ambito dell’agricoltura. Orgoglioso della mia origine contadina, desidero invece dare voce a quanti vivono il proprio lavoro con trasparenza, onestà, sensibilità e sincera attenzione tanto alla custodia dell’ambiente, quanto alla qualità delle relazioni umane con i propri collaboratori e dipendenti.

Un clima di fraternità: una carità che ecceda la giustizia

Abbiamo sperimentato in questi ultimi anni, nel nostro territorio, degli episodi di tensione in cui abbiamo visto contrapporsi proprietari agricoli e cittadini preoccupati per la loro salute in ragione della crescita esponenziale di spazi dedicati alla viticoltura – con i relativi trattamenti fitosanitari – fino ad arrivare in stretta prossimità con abitazioni e scuole. Questi fatti confermano, a mio avviso, che spesso la causa del conflitto è da riscontrare nella mancanza di pratiche di buon vicinato, come pure, in qualche caso, nella mancanza del rispetto dei legittimi regolamenti. È necessario perciò ricostruire un clima di fraternità e di reciproca fiducia, a cui lo stesso papa Francesco ci ha richiamati nell’enciclica Fratelli tutti: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo ‘dialogare’. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare” (n. 198).

E perché questo possa realizzarsi, credo sia necessario un impegno almeno su due livelli.

1. Anzitutto a livello del rispetto della giustizia, facendo ogni sforzo perché i Regolamenti di polizia rurale – alcuni dei quali davvero virtuosi e d’avanguardia – non restino lettera morta, ma diventino prassi attuata. Per fare questo sarà necessario unire le forze, specialmente fra i sindaci e gli amministratori locali, per poter mettere a disposizione maggiori risorse per i doverosi controlli circa l’applicazione delle normative. Controlli più rigorosi, svolti da personale competente che deve essere accuratamente formato e tempestivo nelle modalità del suo intervento.

2. Il livello della giustizia però, da solo, non è affatto sufficiente: occorre che insieme cresca una cultura della gratuità, una capacità di non fermarsi alla semplice tutela dei propri diritti. È necessario uscire dalla propria autoreferenzialità per accogliere le istanze dell’altro, favorendo una relazione di buon vicinato, talora decidendo liberamente di andare oltre le legittime pretese, per favorire piuttosto una conciliazione fra le parti, orientata a una pace sociale.

Proprio in riferimento a questo secondo aspetto, desidero sottolineare un passaggio – che condivido – della Lettera aperta che i sacerdoti e i diaconi dell’unità pastorale dell’Abbazia (parrocchie dei Comuni di Follina, Miane e Cison di Valmarino) hanno indirizzato qualche settimana fa alle loro comunità. Essi esprimono preoccupazione per “un clima sociale che appare sempre più segnato da rancore, aggressività, invidia e gelosia, che feriscono e rovinano ulteriormente le relazioni sociali, [… per cui] non basta rispettare semplicemente il dettato di norme o di leggi per sentirci a posto”.

Auspico davvero che relazioni di gratuità capaci di eccedere il semplice criterio della giustizia (una giustizia intesa come rispetto minimo delle leggi) diventino sempre più un paradigma di riferimento, per risolvere sul nascere le difficoltà che possono sorgere, come insegna il noto caso di Premaor.

E mentre porto la mia vicinanza alle famiglie di Premaor e a ogni altra realtà che guarda con incertezza al proprio futuro, desidero incoraggiare gli stessi imprenditori agricoli a moltiplicare, quasi come “buona testimonianza”, le molte occasioni in cui, proprio grazie ai buoni rapporti di vicinato, sono stati capaci di coltivare relazioni di cordialità e di reciproca attenzione

Una strada faticosa, perciò fruttuosa

Lo sappiamo bene, cari fratelli e sorelle: costruire la pace sociale, come pure custodire l’opera della creazione di Dio e impegnarci nell’attenzione verso i più deboli, sono sfide che fanno parte di un cammino faticoso e in salita. Del resto, l’enciclica Fratelli tutti ci offre un orizzonte chiaro: “La pace sociale è laboriosa, artigianale. Sarebbe più facile contenere le libertà e le differenze con un po’ di astuzia e di risorse. Ma questa pace sarebbe superficiale e fragile, non il frutto di una cultura dell’incontro che la sostenga. Integrare le realtà diverse è molto più difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e solida. Ciò non si ottiene mettendo insieme solo i puri. […] E nemmeno consiste in una pace che nasce mettendo a tacere le rivendicazioni sociali o evitando che facciano troppo rumore, perché non è un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze” (n. 217).

Come ci ricorda ancora papa Francesco, “c’è una ‘architettura’ della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un ‘artigianato’ della pace che ci coinvolge tutti. […] Si tratta di un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti” (nn. 231-232).

Perciò proprio la fatica che sentiamo gravare sulle nostre spalle rispetto a quanto ho comunicato in questa mia lettera è garanzia che siamo sulla strada giusta! È la fatica di chi, pur sapendo la lunghezza e l’incertezza del percorso, intravede con chiarezza la meta.

Auguro a tutti, allora, di non sentirsi estranei rispetto a questi temi, perché ognuno possa fare quella parte che lo Spirito Santo e la propria coscienza gli ispirano. Nella certezza che i frutti non mancheranno, nella misura in cui avremo vissuto ogni fatica con il Signore e nel desiderio di corrispondere alla sua volontà. Che è volontà di bene per ciascuno, è volontà di cura per il creato, è volontà di amore per ogni fratello e sorella.

+ Corrado Pizziolo

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