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Don Luigi Sgargetta

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pubblicato martedì 14 marzo 2006


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Don Luigi Sgargetta

Nasce a Pionca di Vigonza (PD) il 4.7.1927, nell'infanzia si trasferì, con la famiglia a Chiarano (TV), diocesi di Vittorio Veneto nel cui seminario studiò fino all'ordinazione sacerdotale avvenuta il 17.6.1951. Ebbe diversi incarichi pastorali fino al 1963 quando partì missionario per il Burundi dove il vescovo, mons. Luciani, nel 1962 aveva già inviato un primo sacerdote fidei donum. Muore all'età di 47 anni, l'8.8.1974 a Torino, dove nel frattempo si era trasferita la famiglia.


"Twasangiye akabisi n'agahiye" (lett. "Abbiamo condiviso il cibo cotto e quello crudo"), abbiamo condiviso tutto, siamo stati un cuor solo ed un'anima sola. È l'elogio più grande che un burundese può rivolgere ad una persona a cui è legato da una stima profonda.

Così si sono espressi i cristiani della sua comunità di Gasorwe (diocesi di Muyinga) in Burundi alla notizia della morte improvvisa di don Luigi avvenuta in Italia mentre si preparava a ritornare in Burundi: un banale incidente, l'antitetanica che provoca uno choc anafilattico e la morte in pochi giorni. Aveva 47 anni, 23 di sacerdote di cui 11 passati in Burundi.

La comunione di vita è il primo e più importante aspetto della missionarietà di un credente: è quello che don Luigi ha vissuto in mode eminente e che ha praticato con la gente che ha servito.

Un mese dopo la sua morte il vescovo e i sacerdoti della diocesi di Muyinga celebrarono nella parrocchia di Gasorwe una messa in memoria di don Luigi. In quell'occasione il responsabile del Consiglio parrocchiale rivolse il saluto ai convenuti ed usando l'immagine che nella cultura locale manifesta il grande dolore per la perdita di una persona cara disse: "Dal giorno in cui abbiamo appreso la notizia della sua morte le lacrime sono arrivate fino ai nostri piedi. Era un nostro fratello. Era diventato un burundese come noi anche se nel colore della pelle era rimasto bianco. Amò tutti con intensità ed ora vedete come tanti sono venuti per dimostrare come ne è ricambiato!".

Anche i vescovi del Burundi, riuniti in assemblea, alla notizia della sua morte testimoniarono la loro stima verso don Luigi allo stesso modo: "Era un burundese come noi".

La testimonianza del responsabile del Consiglio pastorale di Gasorwe qualifica il tipo di presenza che don Luigi ha voluto dare al suo essere missionario: condividere tutto, la vita, il cibo, l'abitazione, il lavoro, la fatica, i momenti lieti, i bisogni e le angosce della gente. Condivise incarnandosi nella vita della gente. Ancora dalla testimonianza citata: "Tutto quello che vedete (la chiesa, le scuole...) egli lo fece con le sue mani. Fu lui a procurare sempre l'acqua necessaria per le costruzioni scendendo ad attingerla fino al fondo valle! (Nell'uso del paese attingere acqua è un mestiere che gli uomini non fanno; è riservato alle donne!). Lavorò con amor in questo paese straniero per lui meglio di quanto potesse impegnarsi uno del posto. Aiutò soprattutto i più bisognosi: i malati e i poveri. Andava a visitarli dovunque si trovassero sia che abitassero lontano o su in cima alle alte colline. Era una meraviglia il suo buon cuore...".

Fu fedele allo stile di vita dell'incarnazione fin dall'inizio: dopo un primo periodo passato nella parrocchia di Kanyinya con un altro missionario della sua stessa diocesi, chiese di essere mandato, come vicario cooperatore, in una parrocchia guidata da un sacerdote burundese. Vivere con un parroco indigeno vuol dire: mangiare il cibo locale, parlare sempre una lingua straniera, assumere abitudini diverse dalle proprie; vuol dire adattarsi ai ritmi di una cultura abbastanza diversa da quella occidentale, dinamica, efficientista, basata sul darsi da fare.

Anche pastoralmente ha cercato di vivere lo stile di vita dell'incarnazione. Un missionario europeo, per il fatto che viene da una chiesa di antica origine è portato a pensare che un sacerdote africano non ha ancora maturato una adeguata esperienza pastorale; vivere con lui da subalterno, significa spogliarsi di un'infinità di cose; tra tutte la rinuncia alla propria cultura richiede uno sforzo ben più grande che rinunciare agli agi tipici della società occidentale.

Don Luigi ha cercato questo stile di vita con determinatezza e animo sereno.

Quattro anni dopo il suo arrivo in Burundi la diocesi di Ngozi fu divisa in due e don Luigi divenne fidei donum in servizio alla nuova diocesi di Muyinga dove ebbe l'incarico di economo del seminario minore.

Il rapporto col denaro in un missionario che ha alle spalle un paese ricco come l'Italia, è sempre conflittuale: se il conflitto non lo risolve nel proprio cuore esso si trasferisce alla missione che compie diventando causa di contraddizioni e attriti col vangelo. Don Luigi ha operato una scelta chiara: essere povero e semplice nella propria vita, non chiedere mai soldi ai benefattori e tutto ciò che gli arrivava veniva distribuito ai poveri o per realizzare le opere utili alla gente. Mai per avere un qualche vantaggio personale neanche giustificandolo come diritto dell'operaio alla sua mercede.

Il direttore dell'ufficio missionario della diocesi di Vittorio Veneto che passò a visitarlo e rimase colpito dalla sua scelta "di povertà evangelica vissuta fino in fondo" lo definì un "duro". Anche per questa scelta radicale dalla gente fu sentito come uno di loro.

Il vescovo di Vittorio Veneto, mons. Albino Luciani (che nel 1978 fu papa Giovanni Paolo I) nel 1966, recatosi a visitare i fidei donum diocesani in Burundi, tracciò lo stile di vita ricevuta di don Luigi con le sue stesse parole: "...Parto con la mia moto stracarica per andare in succursale: un po' di libri, la lampada a petrolio, le tanaglie per cavare i denti, qualche medicinale e disinfettante, un po' di biancheria e di fazzoletti. Arrivo (dopo 15-20 chilometri di strada) e trovo da lavorare fino al pomeriggio della domenica: messe, confessioni, visita ai malati, ispezione e aiuto alla scuola di catechismo, "giudice conciliatore" di infinite cause, infermiere e cavadenti! ...Per fortuna, alle 18.30 la notte piomba improvvisa. Allora la gente, mancando l'illuminazione, non si muove più dalle capanne. È l'ora in cui io accendo la mia lampada a petrolio e sfoglio i miei libri...".

E il suo successore, mons. Antonio Cunial riassunse così la sua vita nell'omelia funebre: "Sapeva, senza far chiasso, vivere da povero. Passava settimane intere in succursale vivendo con le patate e i fagioli che la gente gli offriva... Aveva acquisito linguaggio e modi propri ai burundesi; per questo egli era entrato nel loro cuore. Lo amavano e lo seguivano in modo mirabile; la gente lo chiamava "mutagatifu" (santo).

Seppe mettersi servitore in parrocchie di preti africani, disponibile ai lavori più umili, condividendo povertà di mezzi economici. Accettava anche la lentezza dei programmi pastorali e di sviluppo sociale e umano, per non umiliare.

Ha realizzato il modo più bello di essere missionario: "bisogna che loro crescano e noi diminuiamo".

Don Mario Gerlin, poi missionario in Brasile, ha condiviso con lui la vita di missionario per due anni nella parrocchia di Gasorwe. Di lui dà questa testimonianza: "Aveva capito che non bisognava andare in Africa per imporre la nostra civiltà europea, ma occorreva andare per servire. È andato lì umilmente dicendo: sono qui, un vostro fratello bianco e mi metto a vostro servizio. E lui, sacerdote bianco, si è messo a servizio di un prete africano. Aveva capito e fatto questo, e non era una cosa facile!".

Il 1972 fu un anno particolarmente tragico per il Burundi. Le tensioni etniche che avevano già dato occasione di stragi negli anni precedenti scoppiarono violente. I Tutsi misero in atto uno sterminio sistematico di tutta la classe hutu che poteva avere un peso nella società: militari, insegnanti, amministratori, catechisti, sacerdoti e altre persone autorevoli...

Don Luigi era allora a Gasorwe assieme a don Mario Gerlin. Anche lì arrivarono i militari a prelevare nella casa parrocchiale il catechista capo, il collaboratore più stretto dei missionari. Don Luigi si oppose all'arresto. Gli fu puntato il fucile minacciandolo se non li lasciava fare. I militari se ne andarono col catechista e con la minaccia che sarebbero tornati il giorno successivo. Fu una notte in cui don Luigi e don Mario si prepararono al peggio. Ma i militari non tornarono.

In quel periodo altri missionari furono minacciati o processati, ma nessuno subì violenza. La vicenda fu particolarmente dolorosa per la diocesi di Muyinga perché il vescovo, invece di difendere la gente rastrellata e uccisa si schierò con la parte opposta.

I missionari stranieri si trovarono soli, senza guida e in conflitto con l'autorità religiosa.

Don Luigi, con la sua maturità e pacatezza riuscì ad essere un elemento che rasserenava gli animi e infondeva forza agli altri, missionari e laici, che si sentivano allo sbando. Seppe essere chiaro senza porsi contro, cercando di informare in modo corretto l'autorità superiore (gli altri vescovi e il nunzio). Il vescovo nel 1976 fu rimosso dal suo incarico, ma don Luigi non vide la soluzione di quella dolorosa vicenda perché morì due anni prima.

Merita infine ricordare l'atteggiamento che don Luigi ebbe nei confronti del suo impegno missionario. In un periodo in cui spesso erano i missionari a voler partire don Luigi dichiarò sempre la sua disponibilità, ma lasciando ai Superiori "tutta la libertà di decisione nei suoi confronti". In una lettera al vicario generale della diocesi, datata il 17 luglio 1974 nell'imminenza della decisione se ripartire o restare in Italia, scrisse: "In ogni circostanza posso dire che non mi è mancato il mandato o l'approvazione del mio vescovo. Anche in questa circostanza... ho bisogno ancora di sentirmi mandato, inviato". La risposta fu positiva, ma venti giorni dopo fu la morte a dare la risposta ultima ai suoi progetti. Un mese dopo sarebbe dovuto partire per il Burundi.

don Gabriele Secco





 
 
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